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La marina mercantile

Non è facile individuare un momento storico in cui si possa dire che la pesca cominciò ad essere considerata come fonte di sostentamento, tuttavia si può ipotizzare che questo momento si verificò con l’avvento del cristianesimo, in quanto lo stesso predicava il digiuno da carni tutti i venerdì, dando origine per necessità alla ricerca di un cibo alternativo: il pesce. Vi sono poche notizie sui sistemi di pesca e le imbarcazioni usate nell’alto medioevo in Sicilia. 

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Sin da tempi remoti il trasporto marittimo delle merci e la pesca si dimostrarono attività necessarie, ma anche molto redditizie. Tali nuove attività (diverse da quelle praticate nell’entroterra: l’allevamento, l’agricoltura e il trasporto di merci con l’ausilio di carri trainati da buoi o cavalli), si svilupparono soprattutto lungo la fascia costiera entro poche miglia dalla costa durante il periodo del basso medioevo. Dapprima si usarono imbarcazioni che alternavano la propulsione a a remi all’uso della vela, ma con l’ausilio di scafi sempre più veloci, leggeri ma resistenti, facilmente governabili con qualsiasi tipo di mare, la pesca ed il trasporto delle merci si estesero sempre più lontano dalle acque siciliane grazie anche all’adozione di nuovi sistemi velici che lasciavano l’uso del remo solamente per la piccola pesca sottocosta; le forme di progresso raggiunte permisero di raggiungere le coste dell’Africa settentrionale, prova di ciò è che ancor oggi a Susa nel Golfo di Hammamet, in Tunisia, vi è un intero quartiere che porta il nome di Capaci (una cittadina a pochi km da Palermo), nome  tramandato da centinaia di anni.

La spiegazione di questo progresso nella pesca e nei trasporti marittimi, la troviamo all’interno dei nostri antichi cantieri navali: infatti i nostri Maestri D’Ascia, come già era avvenuto in altri luoghi, avevano cambiato il sistema costruttivo delle imbarcazioni. Nel periodo dell’alto medioevo venivano realizzati prima i gusci delle barche con la messa in opera del fasciame che poggiava su se stesso; dopo, a seconda dell’imbarcazione, quest’ultima veniva rinforzata con costole interne libere. Sul finire del basso medioevo tal sistema fu abbandonato, cominciò ad essere adottato l’innovativo sistema (che viene adoperato ancor oggi) in cui si realizzavano prima le costole interne (staminali e madieri) collegate alla chiglia, successivamente la struttura ottenuta veniva ricoperta dal fasciame che veniva inchiodato da prua a poppa alle costole; si otteneva così una struttura molto più robusta rispetto a prima, quindi una imbarcazione in grado di poter affrontare con maggiore tranquillità i viaggi in mare aperto per mete più lontane. 

Altro progresso rilevante riscontrato nella cantieristica fu il passaggio dai timoni laterali esterni all’imbarcazione, al timone assiale, una struttura esterna all’imbarcazione che veniva posta all’estremo poppiero, collegata per mezzo di un’incardinatura (agugliotti e femminelle).

Questa cultura tuttavia non è una di quelle che ci sono state tramandate con scritti, disegni od altro, ecco perché degli appassionati di storia della marineria siciliana come noi dell’Associazione Museo del Mare e della navigazione siciliana “Florio” operiamo da anni nella ricerca di notizie o immagini che possano dare un volto ad una parte di tutte quelle imbarcazioni che nel corso dei secoli passati hanno operato nei mari siciliani contribuendo alla creazione della storia della Sicilia. Principalmente il lavoro svolto dal museo è sempre stato un lavoro di ricerca e ricostruzione, con il fine di ricostruire la storia di una imbarcazione di cui magari sono rimaste poche tracce, ma altrettanto importante è stato per noi ricreare i piani di costruzione dell’imbarcazione e magari realizzare un modello che la rappresentasse, ma non nascondiamo che spesso ci siamo trovati ad affrontare delle scelte dal punto di vista tecnico che lasciavano dei dubbi nei progettisti, così in questi momenti abbiamo deciso di avvalerci della collaborazione di esperti nel campo della carpenteria navale in modo da trovare le soluzioni tecniche corrette che ci permettessero di avvicinarci alla realtà di come potesse essere costruita una determinata imbarcazione da noi studiata.

In Sicilia sono rimasti pochi i cantieri navali che realizzano o riparano imbarcazioni in legno, ed una delle competenze principali del moderno Maestro D’Ascia è diventata la progettazione, la quale spesso viene eseguita da persone esperte che la eseguono talvolta anche con l’ausilio di supporti informatici. Nel passato non era così, i Maestri D’Ascia si basavano sulle varie tecniche adoperate nella realizzazione delle imbarcazioni commissionate, applicando le esperienze che avevano maturato nel cantiere in funzione delle richieste dei commissionanti. I Maestri D’Ascia custodivano gelosamente quelli che per loro diventavano gli oggetti più preziosi presenti in cantiere, i mezzi garbi. Questi erano delle mezze sezioni di vari punti dell’imbarcazione che creavano le linee guida per la messa in opera di una corretta sagomatura degli staminali e dei madieri della futura imbarcazione da realizzare.

La costruzione di una imbarcazione cominciava con la messa in opera della chiglia e la posa a piombo di tutti quegli elementi che costituiscono la base dell’imbarcazione, il capo di ruota e il dritto di prua, facendo ricorso ad una serie di puntelli dei madieri collocati trasversalmente ad essa, gli staminali erano collocati parallelamente ad i madieri è ne determinavano uno slancio verso l’alto dando fisionomia alle fiancate dello scafo, il legno adoperato per la realizzazione di queste tre parti dello scafo in genere era la quercia od il rovere, ma talvolta si adoperava anche il gelso molto diffuso ai tempi in Sicilia, questa struttura una volta realizzata veniva chiusa dal fasciame in legno di pino che veniva inchiodato agli staminali ed ai madieri. Il legno di pino veniva adoperato anche per la realizzazione dei bagli e delle sovrastrutture, anche molto apprezzato era il pitch pine, un legno d’importazione. Per l’impermeabilizzazione della chiodatura e per le riparazioni delle fessure nel legno veniva adoperato uno stucco preparato in cantiere formato da terra di Sciacca, Biacca ed olio di lino puro.

Dopo aver realizzato la struttura dello scafo rivestita dal fasciame, in cantiere si eseguiva il calafataggio che aveva lo scopo di creare una perfetta impermeabilità, esso consisteva nel collocare negli interstizi del fasciame della corda o della canapa che veniva spinta dentro l’interstizio e ribattuta con dei martelli di legno, poi si procedeva ad una mano di pece che serviva a cementificare il tutto.

Quando l’imbarcazione era strutturalmente finita, veniva verniciata in tutte le sue parti, internamente ed all’esterno dagli operai del cantiere i quali dipingevano il natante nei colori richiesti dal committente, colori che molto spesso erano uguali ha quelli delle imbarcazioni già possedute dalla famiglia del committente,così da poterle distinguere da quelle possedute da altre famiglie che evidentemente avevano colori diversi. dopo che la vernice asciugava era il momento in cui venivano chiamati i “pingisanti” o “pincisanti” così chiamati a seconda delle zone in cui operavano, questi erano gli artigiani pittori che davano un tocco di vitalità spesso scaramantica alla nuova barca, dando un tono di arricchimento con motivi spesso religiosi legati all’arte popolare. Questi pittori che dipingevano i santi protettori nelle imbarcazioni spesso erano gli stessi che dipingevano i carretti siciliani, appartenenti ad un mondo oramai scomparso, un mondo fatto di credenze popolari, scaramanzia e rispetto verso i santi protettori.

La pittura delle barche era un vero e proprio rito: la colorazione interna, che serviva a distinguere le varie parti dell’imbarcazione, : la colorazione esterna, che serviva a far scivolare meglio l’imbarcazione di legno tra le onde, proteggendola dal malocchio, con la benedizione di santi e madonne in essa raffigurati, dipingendo sull’imbarcazione un paio d’occhi in più, per vedere bene in quali acque ci si sta avventurando. I colori sono quelli puri, sgargianti: rossi accesi, verdi, bianchi e gialli luminosi: la barca deve distinguersi dal blu del mare e poter essere vista a distanza, ma nel contempo l’imbarcazione trovava una relazione cromatica con il mare. 

A prua venivano dipinti i santi Cosma e Damiano, o San Giuseppe, o Sant’Antonio. a poppa la Madonna, mentre sirene, delfini, uccelli, occhi e cuori trafitti decorano l’opera morta di prua. Le barche siciliane erano tavolozze a cielo aperto che scivolavano tra le onde, pronte a solcare il mare e raccontare storie di magia e di pesca miracolosa. Ognuna ha colori e iconografie legate a un luogo specifico, alla storia del suo proprietario, a vecchie leggende che hanno radici profonde.

Un mondo in cui lo stesso saluto tra pescatori era la frase “Viva Maria”, in segno di rispetto verso la Madonna che era la protettrice dei pescatori e delle loro famiglie.